Under the skin. La pelle di Scarlett Johansson
La pelle è prima di tutto quella di Scarlett Johansson, che in una sequenza memorabile (ma per nulla sensuale, nonostante la nudità) indossa gli indumenti di una ragazza morta per portare a termine il suo compito: gli uomini servono infatti al funzionamento della strumentazione extraterrestre. Quando l’aliena inizia a essere "infettata" dalle emozioni - il dolore e il sangue, il cibo, il contatto fisico, una diversa percezione dell’ambiente - si allontana sempre più dalla sua missione e il suo corpo, da strumento di predazione, diventa l’opposto.
Per gran parte del film vediamo tutto con la soggettiva dell'aliena, che osserva in modo asettico le sue prede aggirandosi in ambienti urbani notturni e periferici che danno un ulteriore senso di freddezza, straniamento e minaccia. Gli uomini (quasi tutti passanti ignari, filmati da telecamere nascoste in una serie di improvvisazioni e solo successivamente informati delle riprese) hanno un aspetto comune; uno di questi (l'attore Adam Pearson) è deforme e l’incontro con lui è una delle occasioni che rende maggiormente vulnerabile la protagonista.
A queste ambientazioni si alternano quelle dove l’elemento naturale diventa parte della narrazione stessa: la spiaggia e il bosco in particolare. Da sottolineare a proposito il notevole lavoro del direttore della fotografia Daniel Landin che fa risaltare ogni singolo elemento: la freddezza dell’ambientazione urbana, la poesia e l’inquietudine del paesaggio, il corpo di Scarlett Johansson che, pur essendo una delle più belle donne sulla faccia della terra, qui viene ritratta in modo decisamente naturale.
Fantascienza filosofica, è stato scritto. Ed è indiscutibile che un film tale, nel quale Jonathan Glazer (che insieme a Walter Campbell scrive anche la sceneggiatura) riduce al minimo i dialoghi facendo parlare i fatti, i suoni (la ragazza ha una capacità uditiva maggiore rispetto a quella umana) e la musica di Mica Levi, obblighi chi lo guarda a porsi delle domande. Domande che non sempre siamo in grado di porci, o magari non ne sentiamo la necessità: ecco perché Under the skin può essere considerato un capolavoro o, al contrario, un vuoto esercizio di stile.
Non è un reboot al femminile di L'uomo caduto sulla Terra di Nicolas Roeg; ma neppure ha la pretesa di esserlo. Tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber e presentato in concorso a Venezia 70, Under the skin unisce thriller, dramma e fantascienza in un lungometraggio metafisico al quale solo noi, a seconda della nostra sensibilità, possiamo attribuire un significato preciso.
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