Femina ridens: la guerra tra i sessi nel 1969
"Cosa diventerai con la reincarnazione: un uomo, giallo o nero? Un gatto persiano o un topo di fogna? O una iena, una iena ridens magari. No, anzi, tu diventerai uno scorpione, femmina naturalmente."
In Femina ridens, scritto e diretto da Piero Schivazappa nel 1969, Sayer (Philippe Leroy qui in versione ariana, ricorda il Marcello Mastroianni di La decima vittima) è uno stimato industriale che viene presentato come un uomo estremamente corretto, tanto da licenziare un funzionario che ha sottratto alcune somme dal suo istituto di beneficienza.
Sayer si rivela tuttavia essere un misogino che ha un rapporto malsano con il sesso: ciò emerge durante una conversazione con la segretaria Maria (Dagmar Lassander). La ragazza è una femminista: ritiene che la responsabilità del controllo delle nascite dipenda troppo dalle donne, alle quali viene richiesto di sacrificarsi assumendo anticoncezionali, mentre gli uomini non si preoccupano di nulla.
Sayer si rivela tuttavia essere un misogino che ha un rapporto malsano con il sesso: ciò emerge durante una conversazione con la segretaria Maria (Dagmar Lassander). La ragazza è una femminista: ritiene che la responsabilità del controllo delle nascite dipenda troppo dalle donne, alle quali viene richiesto di sacrificarsi assumendo anticoncezionali, mentre gli uomini non si preoccupano di nulla.
Sayer, che ci regala un monologo sulla paura del maschio di un futuro nel quale le donne, a causa della possibilità di avere figli in provetta, potranno essere totalmente autonome anche nella riproduzione, decide di punire Maria: la narcotizza e la porta nella sua villa.
Qui, in un ambiente che fa sfoggio di un bellissimo arredamento di design d'epoca (la scenografia è di Francesco Cuppini e nel film si nota una riproduzione dell'opera di Niki de Saint Phalle, che raffigura una donna con la vagina dentata), l'uomo sottopone la ragazza a giochi sadici che appaiono immediatamente goffi e teatrali, come se fosse schiavo di una parte che si è cucito addosso da solo.
Oltre a legarla, Sayer sottopone Maria a un'umiliazione bizzarra e allo stesso tempo simbolica, costringendola a fare sesso con un manichino. In altre scene vediamo anche la tortura dell'acqua, con un lavaggio che sembra anch'esso decisamente simbolico, e una serie di fotografie con Philippe Leroy che si ritrae come in un safari mentre tiene un piede sulla preda riversa a terra.
L'industriale ci viene presentato come un killer spietato: mostra a Maria molti scatti che ritraggono donne uccise nei modi più fantasiosi. Il film diventa un thriller angosciante: a un certo punto assistiamo anche a una scena di decapitazione; ma non tutto è come sembra.
Sayer ha la necessità di trascorrere il weekend compiendo gesti di dominio sulle donne per affermare la propria virile autorità. Ma non ha fatto i conti con Maria che con fare dolce, remissivo e sensuale lo seduce senza concedersi, ribaltando i ruoli fino a un finale che oggi può sembrare datato (il ritorno alla natura con la vittoria della mantide, dopo un sanguinoso scontro tra i sessi dominato dalla cultura) ma che all'epoca costa al film il sequestro e la censura di alcune scene.
Molto bella la colonna sonora di Stelvio Cipriani che sottolinea le varie anime del film, fino alla resa dei conti in salsa western, in piscina. Gli effetti speciali di Carlo Rambaldi e la fotografia di Sante Achilli fanno il resto.
Nel suo Dizionario dei film italiani stracult, Marco Giusti lo definisce un "cultissimo erotico con pretese". Sicuramente nel suo mix di generi (giallo, drammatico, erotico e grottesco) questa è una pellicola sul potere che non lascia indifferenti, e non solo per l'apparato visivo. Vi si ritrovano non solo gli echi del cinema di Marco Ferreri, ma anche una certa affinità con l'esordio di Roberto Faenza, Escalation (ne avevo parlato qui) di appena un anno prima.
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