Drive my car, di Ryūsuke Hamaguchi. Conversazione con Marco e Barbara

Non è facile intervenire dopo la riflessione di Marco. Inizio subito dicendo che io il film lo trovo molto lento e, a differenza di altre pellicole di lunga durata che apprezzo molto, non credo che fosse necessario dilatare tanto la narrazione; anzi credo che il film avrebbe tratto maggiore giovamento da una riduzione della durata in fase di montaggio (chiaramente la mia è un’opinione personalissima).

L'aspetto che trovo più interessante di Drive my car è quello delle lingue. In questo film ne troviamo diverse, che si incontrano si intersecano e si scontrano; tanto che la stessa rappresentazione di Zio Vanja è in più lingue, gli attori recitano in varie lingue tra cui quella dei segni e poi ci sono varie provenienze: la macchina che viene guidata è una vecchia Saab, una casa automobilistica svedese.

Per il resto ci sono i soliti drammi esistenziali moderni, quindi troviamo il tradimento, la mancanza di tempismo che in alcuni casi si rivela fatale, i rimpianti. Ci sono molti rimpianti in questo film; i rimpianti di Yasuke, la mancanza di rimorsi di Misaki, la violenza di Koji.

La violenza in Drive my car non viene mostrata, ma ne rimane sempre una traccia latente. Una violenza che sembra quasi bilanciare una continua incapacità di dimostrare i propri sentimenti, quindi è come se ci fosse una compensazione; Koji, e gli atti di cui viene accusato, rappresentano il bilanciamento di questa repressione di sentimenti ed emozioni che troviamo all'interno del film.

Come in molti altri film, assistiamo a un viaggio nell’accettazione di sé; si tratta di cercare di fare i conti con il proprio passato. La figura che mi piace di più è quella di Misaki che racconta una vita assolutamente fuori dall'ordinario, soprattutto il motivo per il quale ha iniziato a guidare l'automobile fin da giovanissima e quando racconta alcuni dettagli del rapporto con la madre.

Ancora una volta si tratta di un film tratto da un libro (in questo caso un racconto di Murakami), ancora una volta come diceva Marco troviamo la creazione come protagonista a tutti i livelli; abbiamo Oto che è sceneggiatrice, tra l’altro è molto interessante l'aspetto della creazione legata al momento dell’amplesso; e tutto ruota attorno allo spettacolo teatrale di Zio Vanja.

Del resto lo stesso soggetto di Zio Vanja, che viene richiamato largamente nella sceneggiatura di Drive my car e viene messo in scena proprio all'interno del film (e viene pure ascoltato in macchina come audiolibro, quindi c’è una ridondanza di Zio Vanja) si basa sul meccanismo di inerzia dei suoi personaggi, legati alle loro rassegnazioni, pieni di rimpianto per desideri che non si possono più avverare; e qui in Drive my car abbiamo dei personaggi che provano rimpianto per non aver potuto fare, dire, salvare persone. Insomma, il film tratteggia bene quella che è la noia di vivere contemporanea, una tematica che abbiamo trovato spesso nelle nostre chiacchierate. La noia di vivere in questo caso è la gabbia della borghesia, la gabbia delle occasioni mancate che ci impediscono di essere felici (oppure ci danno quasi l'alibi, la giustificazione per continuare a poter essere infelici).

La menzione speciale per questo film è per la parte attoriale, secondo me davvero molto azzeccata e anche il protagonista Hidetoshi Nishijima, visto in Dolls di Takeshi Kitano, è molto bravo. In sintesi secondo me è da guardare se vi piacciono i film molto lunghi - si parla di una durata di 3 ore - e dilatati e se vi sentite in vena di guardare un film simile: come diceva Marco, questo è cinema e non tutte le narrazioni sono sintetiche e piene di ritmo; Drive my car è un film che va preso così com'è, lentamente, immergendosi nell'atmosfera dilatata e rallentata della narrazione.

(...)

La riflessione di Barbara è molto interessante; credo anch'io che l’elaborazione del lutto in Occidente sia vista in tutt'altra ottica: basti pensare che c'è proprio un termine stabilito entro il quale si ha, per così dire, il diritto di sentirsi tristi per la morte dei propri cari, un termine oltre il quale viene in automatico diagnosticata una depressione, come se noi avessimo un timer di sei mesi oltre i quali, se stiamo male ci appioppano un’etichetta. Indubbiamente in questo film si dimostra che l'elaborazione può essere molto più dilatata nel tempo. 

Ed è poi interessante la polarizzazione di Marco e Barbara sulla dinamica creativa di Oto, cioè se questa sia legata a un automatismo o a un vero piacere è un bel dilemma; io francamente non ho una risposta e forse sarebbe utile guardare un'altra volta il film per vedere se ci sono altri dettagli e trovare la soluzione.

Come sempre, la chiacchierata integrale è su YouTube:




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