Elvis di Baz Luhrmann. Lo spettacolo, così come il mito, non muore mai

Baz loves Elvis

Faccio una necessaria premessa: non amo il cinema kitsch di Baz Luhrmann. Da adolescente ho apprezzato lo stile dissacrante di Romeo+Giulietta ma in seguito ho trovato il film patetico, per non parlare di Moulin Rouge: non riuscivo a digerire quel mix di melodramma ed eccesso. Eppure, per girare un film sulla storia tragica del Re del Rock, non avrei saputo immaginare un regista migliore.

In Elvis, lo stile del regista (anche co-autore e co-produttore) è perfetto proprio perché usa la macchina in modo frenetico, provocando un assalto continuo in chi guarda, una vera e propria vertigine che diventa parte integrante del desiderio che questa pellicola non solo indaga, ma suscita: l'aggressione visiva di chi assiste allo spettacolo di Luhrmann è pari al delirio dei sensi suscitato da Elvis nelle fan.

Già, perché Elvis è prima di tutto un film estremamente sensuale, merito anche dell'interpretazione di Austin Butler (classe 1991), che è letteralmente diventato Elvis preparandosi per due anni, e che canta molti dei pezzi presenti nella pellicola. Come sempre, Luhrmann ritrae un mondo incantato che presto sarà fagocitato dai cambiamenti. I grandi successi Love Me Tender, Suspicious Minds, Hound Dog e le memorabili esibizioni sul palco rendono ancora più amara la parabola di un artista unico e irripetibile.

Parker il più grande truffatore della storia?

Il film è narrato dal punto di vista del Colonnello Parker (un Tom Hanks gonfiato dalle protesi) che sostiene di aver creato il Re del Rock: e alla fine del film ci chiediamo se lo abbia anche distrutto come sembra ("Non sono stato io a uccidere il mio ragazzo", continua a ripetere Parker), o se a dilaniarlo non sia stata invece la dipendenza dall'amore di Elvis da (e per il) pubblico. Molto significativa in tal senso la scena della madre di Elvis che, durante una delle prime esibizioni del figlio, accusa le fan adoranti di volerlo uccidere.

Il film mostra brevemente l'infanzia di Elvis in un quartiere povero popolato da persone di colore e la scoperta della musica nera (bellissimo il parallelo tra il gospel della chiesa e il blues sensuale che si suona e si balla in una baracca lì accanto); l’attenzione della pellicola è incentrata maggiormente sul periodo in cui Elvis viene scoperto dal Colonnello e inizia la scalata verso il successo e verso una (auto)distruzione inesorabile. 

Luhrmann racconta inoltra le velleità di Elvis di partecipare ai grandi cambiamenti sociali avversando la segregazione razziale e la sua refrattarietà a tenere a bada la propria anima sensuale, pagando tale temerarietà con due anni di servizio militare che tuttavia gli permetteranno di conoscere la futura moglie Priscilla.

Al ritorno, quando sulla scena si affaccia un nuovo modello di rock e attorno a lui muoiono Martin Luther King e Bob Kennedy, Elvis sogna di diventare un grande attore (il suo modello è, significativamente, James Dean); ma è fuori tempo massimo: Hollywood è già in piena decadenza, fagocitata dalla televisione che è simbolo di mediocrità e soppressione dell'espressione personale. In tal senso diventa ancora più emblematica la figura del Colonnello Parker, l’imbonitore che viene dal circo e il cui motto è "non c’è spettacolo senza truffa": infatti trasforma Elvis in un vero e proprio fenomeno da baraccone, sottraendogli l'anima.

Sul finale, Luhrmann sceglie di non mostrare un Elvis sempre più sovrappeso e affaticato, limitandosi a sottolinearne l'ipersudorazione e la crescente sofferenza, condivisa con chi assiste impotente dalla platea del cinema a un declino avvenuto 45 anni prima, che ha sottratto al mondo forse il più grande dei miti. Gran parte del merito spetta a Butler che, oltre a sfoggiare un trucco irresistibile, regala al giovane Elvis una vulnerabilità palpabile che perdura anche quando la star, ormai adulta, non saprà sottrarsi al manipolatore Parker.

Il film mostra poi un video di repertorio con l'ultima esibizione del vero Elvis che appare in tutta la sua triste realtà. L'omaggio di Luhrmann è tanto travolgente quanto commovente: impossibile trattenere le lacrime. La volontà del regista è evidente: non si sofferma sulla dipendenza dalla droga e sull'obesità del cantante ma vuole restituire l'immagine più bella (anche dal punto di vista estetico) e più positiva di un artista unico e inimitabile. Un invito a riscoprirlo, ad amarlo più di quanto lui sia riuscito a fare con se stesso. Straordinaria in particolare la messa in scena del ’68 Comeback Special che dimostra tutta la grandezza artistica (e umana) del Re.

Per approfondire la figura del Colonnello Parker consiglio questo lungo articolo su Film School Rejects.

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