The Whale di Darren Aronofsky. Conversazioni di cinema con Marco e Barbara
Mi scuso subito se farò dei riferimenti al finale del film ma credo che sia stato esplicitato ormai dappertutto. Almeno stavolta vi risparmio lo scherzo del “non faccio spoiler” quando poi puntualmente me li lascio sfuggire di continuo.
The Whale è tratto dall’omonimo testo teatrale di Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura, ed è talmente lineare e “facile” che non sembra neppure un film diretto da Darren Aronofsky, nonostante le evidenti analogie con The Wrestler e Il cigno nero. Ne Il cigno nero c’è il corpo deturpato e anoressico, in The Whale obeso. In The Wrestler l’uomo sconfitto dalla vita e dalla medicina cerca un rapporto con la figlia abbandonata, proprio come in The Whale; in The Wrestler la figlia è omosessuale mentre in The Whale è Charlie a esserlo; ma mentre in The Wrestler Mickey Rourke interpreta se stesso senza aver bisogno di trucco, per The Whale Aronofsky sceglie quello che Jonathan Zenti, su The Post, definisce “un ex manzo di Hollywood” che indossa una tuta fatta male per spingere alla lacrima facile senza preoccuparsi di creare la rappresentazione realistica di una persona obesa: “la fatface come corrispettivo grassofobico della blackface”. Il corpo agisce come incubatore non di empatia ma di pietà: The Whale piace alle persone magre perché è un melodramma, dice Zenti. A proposito ho letto interviste a Fraser che spiega che la scelta è stata volontà precisa del regista: “Senza di te, il film non lo faccio”. Fraser si è preparato molto per il ruolo, ha guardato programmi e documentari per studiare i movimenti e ha sopportato estenuanti sedute di trucco.
Testo teatrale, dicevamo, e qui il teatro è evidente per la scelta dell’ambiente unico e confinato, la casa del protagonista: proprio come Madre!, anche quello limitato a una casa che diventa un teatro di guerra mentre qui la guerra è quella che Charlie fa al suo corpo; Charlie che si fa vedere unicamente dalla sua amica/badante; casualmente, da un missionario che bussa alla sua porta e poi, per scelta, dalla figlia. Il senso di claustrofobia è amplificato dalla chiusura del protagonista che si nega alla vista del fattorino delle pizze e degli stessi studenti che segue, a cui chiede “siate sinceri quando scrivete”.
L’obesità di Charlie nasce da un trauma, una perdita che lo ha segnato profondamente. Un tema abusato quello del trauma, che prevale su tutto il resto. Un noto articolo del New Yorker a firma di Parul Sehgal si chiedeva: ma il trauma, che nella vita quotidiana è causa di disturbi psichiatrici e che viene adorato da scrittori e sceneggiatori, arricchisce i personaggi o li appiattisce in una serie di sintomi?
Collegato al trauma troviamo il pregiudizio verso le relazioni omosessuali, portato avanti anche da molte religioni tra cui proprio la fede del ragazzo che bussa alla porta di Charlie.
Premesso tutto questo, vorrei fare una considerazione. Adoro titoli come ET, L’attimo fuggente, Forrest Gump: quei film buonisti, didascalici, lacrimevoli e colmi di traumi e storie struggenti. Ecco, The Whale non è riuscito a toccarmi tanto. Gli manca qualcosa, forse un po’ di quella verità che Charlie chiede agli studenti del suo corso. Se The Wrestler funziona perfettamente, The Whale lascia un alone di stantio, di già visto, di forzato, di fasullo.
Chiudo con una riflessione sul reale focus del film, ispirata anche dall’intervento di Barbara. Charlie ripete più volte che non vuole andare all’ospedale, anche se sta morendo di insufficienza cardiaca congestizia. Il trauma su cui si regge il film ruota tutto attorno a un’altra persona che si è lasciata andare. Trovo che in questo The Whale sia molto coraggioso. Charlie è come The Wrestler, pienamente consapevole delle proprie azioni. Nella sua recensione, Zenti obietta che un autore magro non può sapere che cosa prova realmente una persona gravemente obesa e che essere obeso non significa per forza lasciarsi morire o non curare il proprio aspetto. Verissimo. Ma The Whale, a parte il titolo che evoca chiaramente la balena di quel Moby Dick continuamente citato, non è necessariamente un film sull’obesità. I disturbi alimentari sono molto diffusi, così come la depressione legata a traumi: uno stato che comporta il venir meno della cura di sé e il desiderio di farla finita, ed è questo per me il succo del film. The Whale non è un film sull’obesità ma sull’amore perduto e sulla scelta di andarsene.
(…)
Sono d’accordo con Barbara quando dice che una persona non può rappresentare un’intera categoria. Io stessa, che sono allergica al mantra ripetuto da chiunque che recita “non si può più dire niente, dittatura del politically correct, cancel culture dappertutto”, e che capisco benissimo la motivazione che sta dietro alle istanze di visibilità e di riconoscibilità da parte di minoranze che sono state oppresse per secoli, trovo che alcune di queste polemiche siano estreme e forzate. Ad esempio la pretesa che solo un attore omosessuale possa interpretare il ruolo di un omosessuale; e lo stesso vale per la questione etnica. Trovo che lo spettacolo debba essere libero da certe imposizioni, che per realizzare un film si debbano prendere quegli interpreti che si reputano più adatti alla riuscita dell’opera; insomma, non penso che Fraser offenda la categoria delle persone obese solo perché per The Whale ha indossato una tuta per sembrare più grasso di quello che è.
The Whale è tratto dall’omonimo testo teatrale di Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura, ed è talmente lineare e “facile” che non sembra neppure un film diretto da Darren Aronofsky, nonostante le evidenti analogie con The Wrestler e Il cigno nero. Ne Il cigno nero c’è il corpo deturpato e anoressico, in The Whale obeso. In The Wrestler l’uomo sconfitto dalla vita e dalla medicina cerca un rapporto con la figlia abbandonata, proprio come in The Whale; in The Wrestler la figlia è omosessuale mentre in The Whale è Charlie a esserlo; ma mentre in The Wrestler Mickey Rourke interpreta se stesso senza aver bisogno di trucco, per The Whale Aronofsky sceglie quello che Jonathan Zenti, su The Post, definisce “un ex manzo di Hollywood” che indossa una tuta fatta male per spingere alla lacrima facile senza preoccuparsi di creare la rappresentazione realistica di una persona obesa: “la fatface come corrispettivo grassofobico della blackface”. Il corpo agisce come incubatore non di empatia ma di pietà: The Whale piace alle persone magre perché è un melodramma, dice Zenti. A proposito ho letto interviste a Fraser che spiega che la scelta è stata volontà precisa del regista: “Senza di te, il film non lo faccio”. Fraser si è preparato molto per il ruolo, ha guardato programmi e documentari per studiare i movimenti e ha sopportato estenuanti sedute di trucco.
Testo teatrale, dicevamo, e qui il teatro è evidente per la scelta dell’ambiente unico e confinato, la casa del protagonista: proprio come Madre!, anche quello limitato a una casa che diventa un teatro di guerra mentre qui la guerra è quella che Charlie fa al suo corpo; Charlie che si fa vedere unicamente dalla sua amica/badante; casualmente, da un missionario che bussa alla sua porta e poi, per scelta, dalla figlia. Il senso di claustrofobia è amplificato dalla chiusura del protagonista che si nega alla vista del fattorino delle pizze e degli stessi studenti che segue, a cui chiede “siate sinceri quando scrivete”.
L’obesità di Charlie nasce da un trauma, una perdita che lo ha segnato profondamente. Un tema abusato quello del trauma, che prevale su tutto il resto. Un noto articolo del New Yorker a firma di Parul Sehgal si chiedeva: ma il trauma, che nella vita quotidiana è causa di disturbi psichiatrici e che viene adorato da scrittori e sceneggiatori, arricchisce i personaggi o li appiattisce in una serie di sintomi?
Collegato al trauma troviamo il pregiudizio verso le relazioni omosessuali, portato avanti anche da molte religioni tra cui proprio la fede del ragazzo che bussa alla porta di Charlie.
Premesso tutto questo, vorrei fare una considerazione. Adoro titoli come ET, L’attimo fuggente, Forrest Gump: quei film buonisti, didascalici, lacrimevoli e colmi di traumi e storie struggenti. Ecco, The Whale non è riuscito a toccarmi tanto. Gli manca qualcosa, forse un po’ di quella verità che Charlie chiede agli studenti del suo corso. Se The Wrestler funziona perfettamente, The Whale lascia un alone di stantio, di già visto, di forzato, di fasullo.
Chiudo con una riflessione sul reale focus del film, ispirata anche dall’intervento di Barbara. Charlie ripete più volte che non vuole andare all’ospedale, anche se sta morendo di insufficienza cardiaca congestizia. Il trauma su cui si regge il film ruota tutto attorno a un’altra persona che si è lasciata andare. Trovo che in questo The Whale sia molto coraggioso. Charlie è come The Wrestler, pienamente consapevole delle proprie azioni. Nella sua recensione, Zenti obietta che un autore magro non può sapere che cosa prova realmente una persona gravemente obesa e che essere obeso non significa per forza lasciarsi morire o non curare il proprio aspetto. Verissimo. Ma The Whale, a parte il titolo che evoca chiaramente la balena di quel Moby Dick continuamente citato, non è necessariamente un film sull’obesità. I disturbi alimentari sono molto diffusi, così come la depressione legata a traumi: uno stato che comporta il venir meno della cura di sé e il desiderio di farla finita, ed è questo per me il succo del film. The Whale non è un film sull’obesità ma sull’amore perduto e sulla scelta di andarsene.
(…)
Sono d’accordo con Barbara quando dice che una persona non può rappresentare un’intera categoria. Io stessa, che sono allergica al mantra ripetuto da chiunque che recita “non si può più dire niente, dittatura del politically correct, cancel culture dappertutto”, e che capisco benissimo la motivazione che sta dietro alle istanze di visibilità e di riconoscibilità da parte di minoranze che sono state oppresse per secoli, trovo che alcune di queste polemiche siano estreme e forzate. Ad esempio la pretesa che solo un attore omosessuale possa interpretare il ruolo di un omosessuale; e lo stesso vale per la questione etnica. Trovo che lo spettacolo debba essere libero da certe imposizioni, che per realizzare un film si debbano prendere quegli interpreti che si reputano più adatti alla riuscita dell’opera; insomma, non penso che Fraser offenda la categoria delle persone obese solo perché per The Whale ha indossato una tuta per sembrare più grasso di quello che è.
(Conversazione integrale su Youtube)
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